La santa e maestra indù Ma Anandamayi (1896-1982).

La belleza, anche quella di un semplice oggetto, di un fiore modesto o di un fiocco di neve, suggerisce un mondo intero; essa libera, mentre la bruttezza di per sé imprigiona; diciamo “di per sé”, poiché delle compensazioni possono sempre neutralizzarla, come, viceversa, la bellezza può, di fatto, perdere tutto il suo prestigio. Nelle condizioni normali la bellezza suscita a un tempo l’illimitatezza dell’equilibrio di possibilità concordanti; richiama così l’Infinito, e con ciò, in una maniera più immediatamente tangibile, la nobiltà e la generosità che ne derivano: la nobiltà che sdegna e la generosità che prodiga. Non c’è nella bellezza in sé nulla di meschino; non c’è in essa né agitazione né avarizia, né contrazione alcuna di nessun tipo.

L’archetipo della bellezza, o il suo modello divino, è insieme la sovrabbondanza e l’equilibrio delle qualità divine e il traboccamento delle possibilità esistenziali nell’Essere puro; in un significato abbastanza differente la bellezza discende dal divino Amore, ossia l’Amore è la volontà di dispiegarsi e di darsi, di realizzarsi in un “altro”, e perciò “Dio ha creato il mondo per amore”. Il risultato dell’amore è una totalità che attua un perfetto equilibrio e una perfetta beatitudine e, per questo, è una manifestazione della bellezza, la prima che sia e quella contenente tutte le altre, ovvero la creazione, il mondo, che nei suoi squilibri contiene la bruttezza, ma è bellezza nella sua totalità. L’anima umana realizza quella totalità solo nella santità.

Schuon, Logica e trascendenza, Mediterranee, 2013, pp. 203-204.