Frithjof Schuon

ed il messaggio della Filosofia Perenne

Il carattere fa parte dell’intelligenza

Chief Medicine Crow – c. 1878 (Foto di Charles Bell)

Nella spiritualità più che in ogni altro ambito preme capire che il carattere di una persona fa parte della sua intelligenza: senza un buon carattere – un carattere normale e pertanto nobile – l’intelligenza anche metafisica è in parte inoperante, poiché la conoscenza completa de quello che è fuori di noi ne esige una uguale di noi medesimi.

Il carattere di una persona è, per un verso, ciò che essa vuole e, per l’altro, quanto ama; la volontà e il sentimento prolungano l’intelligenza, sono, come essa – che con ogni evidenza li penetra – delle facoltà d’adeguamento. Conoscere realmente il Sommo Bene è, ipso facto, da un lato volere quello che ci avvicina a lui e dall’altro amare ciò che testimonia di lui; ogni virtù deriva alla fine da tale volontà e da questo amore. L’intelligenza che non si accompagna alle virtù dà origine a una conoscenza potremmo dire planimetrica: è quasi che si cogliesse unicamente il cerchio o il quadrato, ma non la sfera né il cubo.

Frithjof Schuon, Il Senso dell’Assoluto, Mediterranee, Roma, 2018, p. 57.

La virtù più grande è la verità in quanto è vissuta

Cheikh Mohammed Ibn Al-Tâdilî.

L’umiltà, come si sa o dovrebbe sapere, ha origine dalla nostra completa dipendenza da Dio; deriva normalmente da questa consapevolezza un senso delle proporzioni sempre vigile, che ci impedisce e di sopravvalutarci e di sottovalutare gli altri. Ora non occorre evidentemente moderare tale virtù, bensì il suo possibile eccesso; e lo si modera mediante la virtù complementare, la veracità, la quale ci ricorda che nessuna virtù ha diritto ad avversare la verità, e conseguentemente ci incita a non sopravvalutare nessuno, né a sottovalutarci quando è evidente la gradazione dei valori. Un maestro di scuola si deve accorgere che un determinato fanciullo è più dotato di lui, ma non può credere di essere, quale maestro e adulto, più ignorante e di minor esperienza del fanciullo.

Analoga osservazione di addice alla sincerità, che consiste nell’essere quanto si esprime e nell’esprimere quanto si è; pure qui vi è una virtù che tempera l’errata interpretazione e l’eccesso, ossia la prudenza. Difatti la sincerità non ci costringe a svelare agli altri quello che li trascende o non li concerne, o che non è loro d’alcuna utilità, se non addirittura nocivo; in breve ciò che essi non desiderano conoscere se sono uomini retti. (…)

Se le espressioni ellittiche fossero facilmente comprese, diremmo volentieri che la virtù più grande è la verità: la verità in quanto è vissuta, non pensata soltanto, e che diviene in noi il senso del sacro e dell’adorazione.

Schuon, L’esoterismo come principio e come via, Mediterranee, Roma, 1984, pp. 125-126

La carità è fare dono di Dio a Dio

San Giovanni Bosco (1815-1888).

La carità è in definitiva fare dono di Dio a Dio, mediante l’ego e attraverso gli esseri. Essa comunica una benedizione, la cui fonte è Dio; e la comunica al prossimo, che come oggetto d’amore funge da Dio.

Donando Dio ao prossimo, facciamo dono di noi stessi a Dio.

Schuon, Prospettive spirituali e fatti umani, Mediterranee, 2011, p.148.

Il mondo è bellezza nella sua totalità

La santa e maestra indù Ma Anandamayi (1896-1982).

La belleza, anche quella di un semplice oggetto, di un fiore modesto o di un fiocco di neve, suggerisce un mondo intero; essa libera, mentre la bruttezza di per sé imprigiona; diciamo “di per sé”, poiché delle compensazioni possono sempre neutralizzarla, come, viceversa, la bellezza può, di fatto, perdere tutto il suo prestigio. Nelle condizioni normali la bellezza suscita a un tempo l’illimitatezza dell’equilibrio di possibilità concordanti; richiama così l’Infinito, e con ciò, in una maniera più immediatamente tangibile, la nobiltà e la generosità che ne derivano: la nobiltà che sdegna e la generosità che prodiga. Non c’è nella bellezza in sé nulla di meschino; non c’è in essa né agitazione né avarizia, né contrazione alcuna di nessun tipo.

L’Onnipossibilità implica le possibilità ‘assurde’

“Dio fa quello che vuole”: ciò significa non che, simile a un individuo, Dio possa avere dei desideri arbitrari, ma che il puro Essere comporta proprio per sua natura l’Onnipossibilità; ora l’illimitatezza di questa implica le possibilità per così dire assurde, ossia contrarie alla natura dell’Essere, che ogni fenomeno è tuttavia ritenuto manifestare, e palesa volente o nolente; tali possibilità possono chiaramente realizzarsi soltanto in modo illusorio e delimitato, giacché nessun male può penetrare nell’ordine celeste. Il male, lungi dal costituire la metà del possibile — non esiste affatto simmetria tra il bene e il male — è limitato dallo spazio e dal tempo sino a ridursi a una quantità infima nell’economia dell’Universo totale; è così poiché “la Misericordia include ogni cosa”.

In altri termini: l’Infinitudine divina implica che il Principio supremo consenta non soltanto a limitarsi in maniera ontologica — per gradi e in vista della Misericordia universale — ma anche a lasciarsi contraddire in seno a questa; ciascun metafisico l’ammette intellettualmente, ma ci manca molto però che ognuno sia capace d’accettarlo moralmente, di rassegnarsi cioè alle conseguenze concrete del principio dell’assurdità necessaria.

Schuon, La trasfigurazione dell’uomo, “Il mistero della possibilità”, Mediterranee, 2016, p. 69.

Rimanere nella santa infanzia

L’importante per l’uomo virtualmente liberato dalla caduta è rimanere nella santa infanzia. In un certo modo Adamo ed Eva erano “fanciulli” prima della caduta e non sono diventati “adulti” che con e dopo di essa; l’età adulta infatti rispecchia il regno della caduta; la vecchiaia, in cui le passioni si sono estinte, somiglia nuovamente all’infanzia e al Paradiso, nelle condizioni spirituali normali per lo meno.

Occorre combinare l’innocenza e la fiducia dei più piccoli con il distacco e la rassegnazione dei più vecchi; le due età s’incontrano nella contemplatività, poi nella prossimità a Dio: l’infanzia è “ancora” vicina a Lui, e la vecchiaia lo è “già”. Il fanciullo può trovare la felicità in un fiore, e così il vecchio; gli estremi si toccano, e il cerchio spiroidale si richiude nella Misericordia.

Schuon, Sguardi sui mondi antichi, Mediterranee, 1996, p. 55.

La conoscenza salva se impegna tutto ciò che siamo

Lo sceicco Ahmad al-ʿAlawî (1869-1934).

La conoscenza salva soltanto a condizione d’impegnare tutto ciò che siamo: quando è una via che dissoda e trasforma, e ferisce la nostra natura come il vomere solca la terra.

Ciò significa che l’intelligenza e la certezza metafisica non salvano da sole, e non impediscono da sé le cadute titaniche. Questo spiega le precauzioni psicologiche e altre con cui ogni tradizione spirituale cinge il dono della dottrina.

* * *

Allorché la conoscenza metafisica è effettiva, genera l’amore e distrugge la presunzione. Genera l’amore: ovvero la direzione spontanea della volontà verso Dio, e la percezione di “me stesso” — e di Dio — nel prossimo.

Distrugge la presunzione: poiché la conoscenza non consente all’uomo di sopravvalutarsi, né di sottovalutare altrui; incenerendo tutto quel che non è Dio, mette in ordine ogni cosa.

Tutto ciò che san Paolo dice della carità concerne la sapienza effettiva, dal momento che questa è amore; egli l’oppone alla teoria come concetto umano. L’Apostolo vuole che la verità venga contemplata con il nostro essere intero; chiama “amore” quella totalità della contemplazione.

La conoscenza metafisica è sacra. La peculiarità delle cose sacre consiste nell’esigere dall’uomo tutto ciò che egli è.

Schuon, Prospettive spirituali e fatti umani, Meditarranee, 2011, pp. 126-127.

L’alchimista trasforma il piombo in oro

L’alchimista trasforma il piombo in oro: estrae dalla natura vile e greve l’essenza nobile e splendente, l’intelletto puro, che a priori è sepolto sotto la pesantezza vile della natura decaduta.

Il tagliatore di pietre toglie dalla pietra bruta l’elemento informe, ne fa una verità geometrica, una norma, una bellezza ordinata secondo un prototipo universale: proprio così egli martella la sua anima per eliminarne il caotico, l’arbitrario, il grossolano.

Il muratore coordina le materie sparse e ne fa la dimora di Dio; dal caos indeterminato che era, la sua anima diviene il tempio della presenza divina, quel tempio il cui modello è l’Universo.

Sono queste altrettante forme d’ascesi interiore basate su operazioni fisiche; l’intelligenza contemplativa rende efficaci le analogie esistenti nella natura delle cose.*

* Questo parallelismo tra l’arte attiva e lo sviluppo spirituale appare in una maniera assai sorprendente nel Buddhismo Zen, dove il tiro all’arco per esempio dà origine a un’intera scienza iniziatica. Lo Zen deriva dal Dhyâna originale.


Schuon, Prospettive spirituali e fatti umani, Meditarranee, 2011, pp. 77-78.

All’uomo come intelligenza, Dio appare come “Verità”

Mosaico islamico marocchino.

Dal punto di vista della soggettività umana, l’uomo è il contenente e Dio il contenuto; dal punto di vista divino — se ci si può esprimere così — il rapporto è inverso, tutto essendo contenuto in Dio e nulla potendo contenerlo. Dire che l’uomo è fatto a immagine di Dio, significa nello stesso tempo che Dio assume a posteriori, di fronte all’uomo, qualcosa di questa immagine; Dio è puro spirito e l’uomo è di conseguenza intelligenza o coscienza; inversamente, se definiamo l’uomo come intelligenza, Dio apparirà come “Verità”.

In altre parole, Dio, volendo affermarsi sotto l’aspetto “Verità” si indirizza all’uomo in quanto dotato di intelligenza, come si indirizza all’uomo in estremo bisogno per affermare la sua misericordia, o all’uomo dotato di libero arbitrio per affermarsi come legge di salvezza.

Schuon, “Religio Perennis”, Sguardi sui Mondi Antichi, Mediteranee, 1996.

Il monaco è atemporale

Monaca buddista. Asia meridionale. 1930 circa.

Un mondo è assurdo in quanto il contemplativo, l’anacoreta, il monaco, appaiono in esso come un paradosso o un “anacronismo”. Ora il monaco è nell’attualità appunto perché è atemporale: viviamo nell’epoca dell’idolatria del “tempo”, e il monaco incarna tutto quello che è immutabile, non per sclerosi o per inerzia, ma per trascendenza.

Schuon, Sguardi sui Mondi Antichi, Edizioni Mediterranee, 1996, pp. 119-120.

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