Frithjof Schuon

Ogni metodo di realizzazione spirituale comporta un mezzo fondamentale di concentrazione e d’attualizzazione; questo mezzo o sostegno è, nella maggioranza delle tradizioni se non in tutte, un’invocazione di un Nome divino, invocazione che può rivestire i modi più diversi, che vanno dall’appello propriamente detto, di cui la salmodia e la litania sono modalità secondarie, fino all’atto respiratorio e pure al silenzio che, per parte sua, sintetizza qualsiasi parola nella sua non differenziazione1 .

Anche la comunione cristiana è uno di tali modi, per la sua connessione al simbolismo del Verbo e della bocca; tuttavia la presenza di questa ma­niera eccezionale d'”invocazione”, a motivo della sua stessa particolarità, non può escludere la pratica dell’invocazione nel senso proprio del termine; ma quell’invocazione deve avere allora un’importanza meno basilare di quel che aveva nelle tradizioni che, come la tradizione sufica — giacché si tratta sempre d’esoterismo — non hanno l’Eucaristia, o meglio ne possiedono l’equivalente sotto la sola forma di un’invocazione del Nome, o dei Nomi, della Divinità. Appare qui, tra le vie cristiana e sufica, una sorta di compensazione: si potrebbe dire che l’iniziato delle Chiese primitive, possedendo il rito d’invocazione nel modo eucaristico e non potendo privarsi, nonostante tale mezzo, della pratica eminentemente importante e possente dell’invocazione vocale, non dovesse più invocare il Nome supremo, l’eccellenza di detta invocazione essendo già contenuta, per quest’iniziato, nel modo eucaristico; era quindi, prescindendo dalle litanie e dai Salmi, un Nome o più Nomi attribuiti al Verbo che s’invocava, poiché: «Chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvo» (At, 2, 21). D’altronde potremmo dire che i Cristiani, abbagliati dalla manifestazione del Verbo e legandosi soltanto a essa, non avevano più accesso all’invocazione del Nome integrale e supremo di Dio, la quale era riservata ai fedeli della tradizione paracletica, l’Islam, senza parlare delle tradizioni anteriori al Cristianesimo. La sostituzione dell’invocazione con la comunione è in relazione diretta col fatto che il Cristianesimo non possiede lingua sacra, elemento indispensabile per il rito invocativo2.    

Il versetto del profeta Gioele che abbiamo appena citato, colloca tale in­vocazione in un insieme di condizioni che sono quelle della fine dell’età oscura (Kali Yuga), ma che caratterizzano pure, quando si considera la totalità di queste quattro età (Manvantara), l’intera età oscura; ora anche le Scritture indù insegnano che la pratica spirituale meglio appropriata alle condizioni dell’età oscura è l’invocazione di un Nome divino; si sa che nell’invocazione praticata da Shrȋ Râmakrishna, egli si rivolgeva a Kâlȋ, la “Madre divina”, mentre un suo illustre antenato spirituale, Shrȋ Chaitanaya, aveva invocato il nome del Verbo: Krishna.

L’invocazione cristiana è, analogamente, un’invocazione del  Verbo:  Kίριε ̓ελέισον e Χριστ ̓ελέισον3, o ancora, e forse soprattutto: Marana tha! («Nostro Signore, vieni!») formula aramaica usata nella liturgia della Chiesa primitiva.

Nell’Islam, in ragione del carattere semplice, sintetico e primordiale di questa forma tradizionale, l’invocazione è rivolta al Principio supremo: Allâh. A essa s’unisce quella dei Nomi divini (asmâ’u Llâhi) che numericamente sono novantanove, come: Er-Rahmân (“Il Clemente”), Er-Rahȋm (“Il Misericordioso”), El-Malik (“Il Re”), El-Quddûs (“Il Santo”), Es-Salâm (“La Pace”), che glorificano, al pari delle litanie sul Profeta (çalawât alan-Nabȋ) o l”Uomo Universale” (el-insân el-kâmil), gli aspetti del Verbo, e particolar­mente anche la recitazione del Corano alla quale corrispondono per certi versi il canto dei Salmi tra i Cristiani e la lettura della Thora tra gli Ebrei4.

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Nell’Eucaristia ci sono le due Specie, ugualmente ci sono nell’invocazione del Nome d’Allâh due elementi che corrispondono loro: l’alif e la finale. Come il pane, immagine del corpo sacro, è spezzato da Cristo, così l’alif comporta una rottura, indicata graficamente dalla hamzat el-qat’ (segno ortografico indicante una “interruzione”), e rappresentato foneticamente dalla discontinuità tra il silenzio che precede la parola e il suono “a” che la rompe subitamente5; e come il vino, immagine del sangue sacro, è versato, così il suono “h” si confonde senza discontinuità sensibile e per la sua indefinitezza apparente e simbolica, col silenzio che segue la parola e nel quale si perde.

Quei due elementi simbolizzano, in una maniera del tutto generica, ri­spettivamente la “forma” e lo “spirito”, o il “sostegno” e la “realtà” di cui è il veicolo, o ancora, in un senso più esteriore, l’exoterismo e l’esoterismo, il secondo essendo rappresentato tanto dalla finale del Nome supremo quanto dal vino eucaristico, o in altri termini, sia dal sangue sia dal soffio. In tale ordine d’idee notiamo la corrispondenza simbolica esistente tra la circostanza che, nella Chiesa romana, la comunione sotto la specie del vino è riservata solo ai sacerdoti6 e il fatto che la respirazione del Sufi equivale alla pronuncia indefinitamente o perpetuamente ripetuta del Nome d’Allâh la cui lettera quintessenziale è appunto la finale, vale a dire il soffio; giacché proprio nel soffio si riassorbe il Nome d’Allâh, e nel silenzio si riassorbe il soffio .

Abbiamo detto poc’anzi che la comunione cristiana, rito iniziatico al­ l’origine e per sua natura, si riferisce al simbolismo della bocca, come per altro ogni invocazione; c’è tuttavia tra l’invocazione propriamente detta e la sua modalità eucaristica questa differenza: nella seconda la bocca viene considerata nella sua qualità d’organo di nutrizione, mentre nella prima la bocca è contemplata nella sua qualità d’organo della parola. Tra i due aspetti della bocca esiste un legame simbolico che si palesa, nell’ambito corporeo, precisamente perché le due facoltà, sia quella della parola sia quella della nutrizione, hanno il medesimo organo7; tale solidarietà sim­bolica dipende del resto dalla complessità dello stesso simbolo eucaristico: il Verbo che è “detto” da Dio, viene “mangiato” dall’uomo. Il simbolo che, nell’invocazione sufica, in fondo resta sempre il medesimo e serba perciò la sua efficacia attraverso tutti i suoi modi, è applicato in senso contrario; l’uomo appunto “dice” il Verbo pronunciando il Nome divino, ed è allora assorbito, trasformato egli stesso mediante la sua “seconda nascita” in pane eucaristico, dalla Bocca divina; immagine che deve far risultare il processo d’assimilazione e d’identificazione dell’ “evento” individuale col Principio universale8. La relazione simbolica tra la duplice funzione della bocca e l’equivalenza profonda dell’alimento e della parola è contenuta nella risposta di Cristo al tentatore: “L’uomo non vive di solo pane, ma d’ogni parola che esce dalla Bocca di Dio”, cosa che indica il significato iniziatico dalla partecipazione al corpo di Cristo, corpo il cui sostituto è il pane eucaristico della comunione.

C’è  d’altronde un rapporto assai importante tra l’invocazione del Nome divino e la nascita di Cristo9; in un caso il Verbo esce dalla bocca dell’uo­mo, nell’altro dall’organo generatore della Vergine, accostamento che fa apparire l’analogia simbolica tra la parola e la nascita10. Da quest’analogia discende che la bocca del dhâkir11 che invoca Allâh è identica all’organo generatore della Vergine, dunque alla Vergine generatrice  (Virgo genitrix), e ciò indica molto chiaramente che la “verginità” è la qualità indispensabile della bocca12 del dhâkir; tali considerazioni fanno emergere il rapporto tra l’accoglimento dello Spirito di Dio dal corpo della Vergine13, ricezione espressa, nella Genesi, dallo «Spirito di Dio aleggiava sulla bocca delle acque», e il ricevimento nell’Eucaristia dalla bocca dell’uomo, questi identificato simbolicamente alla Vergine, deve esse puro, ossia nello stato di grazia santificante operato, nell’ottica sacramentale, dalla confessione o meglio dal suo prototipo iniziatico, quale esisteva presso i maestri delle Chiese primitive.

Il corpo di Cristo — la sua sostanza individuale — proviene dalla Vergine14; il suo Spirito è Dio; perciò Cristo viene chiamato nell’Islam Rûhu ‘Llâh, “Spirito d’Allâh”. Il corpo di Cristo procede dalla Vergine generatrice, e lo Spirito di Cristo è Dio, similmente il Nome divino viene dalla bocca del dhâkir, mentre il soffio, che giunge dall’interno del corpo e non dalla bocca, ma che riempie e vivifica questo, corrisponde al Rûhu ‘Llâh o allo “Spirito che soffia dove vuole”; in un significato più profondo e più reale proprio l’invocazione in quanto tale corrisponde alla Vergine, dato che l’invocazione è il sostegno dell’ “atto divino” o della “presenza reale” che, nel dhâkir, è Rûhu ‘Llâh. Poiché al pari dell’Eucaristia è il sostegno della “presenza reale”, della Shekinah del Sancta Sanctorum del Tempio, così il Nome divino è il sostegno di quella stessa “presenza”, la Sakȋnah che risiede nel Sancta Sanctorum o “segreto” (sirr) del cuore (qalb) del credente (mu’min). 

Frithjof Schuon nel Vallese nel 1974

Note

* Articolo apparso sul numero di maggio del 1940 della rivista Études Traditionnelles, e non più ripreso dell’Autore negli scritti successivi.

1 L'”invocazione” silenziosa è soprattutto praticata, nel Sufismo, nella Tarȋqah naqshabendiyah, mentre il silenzio in sé assume una funzione preponderante nei metodi taoisti, come lo ha avuto nei metodi pitagorici. Nei monaci trappisti la pratica del silenzio si riduce sfortunatamente ad un rigore puramente morale e penitenziale, il significato profondo del silenzio, che è d’ordine speculativo, quindi intellettuale, essendo perso al pari di tanti elementi della spiritualità cristiana.
2 La possibilità del modo eucaristico appare quasi la ragione fondamentale della circostanza che il Cristianesimo non abbia avuto una lingua sacra. Si può notare che il Corano riconosce il rito della comunione cristiana che viene indicata anche come un mezzo spirituale peculiare di Cristo. Segnaliamo a questo proposito due passi della Sura della Tavola: il versetto 79, che parla di Gesù e Maria, dice che “essi si nutriranno di cibi”, cosa che, naturalmente, non si riferisce solamente al nutrimento comune; i versetti 112-115 si riferiscono all’istituzione stessa del rito: “O Gesù, figlio di Maria, dissero gli apostoli, il tuo Signore può far discendere su di noi una tavola imbandita? — Temete Allâh, rispose loro Gesù, se siete fedeli. — Noi desideriamo, dissero, sederci a essa e ivi mangiare; allora i nostri cuori saranno rassicurati, sapremo che ci hai predicato il vero, e renderemo testimonianza in tuo favore. — Gesù, figlio di Maria, rivolse questa preghiera: Allâhumma, nostro Signore, facci discendere dal cielo una tavola imbandita; che essa sia un festino per il primo e l’ultimo tra noi, e un segno della Tua possanza nutrici, perché Tu sei il miglior nutritore. — Allâh disse allora: ve la farò discendere; ma guai a chi, dopo tale miracolo, sarà incredulo… “. L’associazione stabilita tra Gesù e Maria nella prima citazione assumerà l’intero suo valore alla luce di quel che diciamo più avanti del simbolismo della Virgo genitrix.
3 Vi è un’analogia degna di nota tra il nome “Gesù di Nazareth” e l’invocazione buddhistica: Om mani padmé hum; infatti il senso letterale del nome Nazareth è “fiore”, e mani padmé significa: “gioiello nel loto”.
4 L’invocazione rituale di un Nome divino implica essenzialmente una qualificazione sia corrispon­dente sia generale, e per tale ragione non è mai praticata senza la sorveglianza o l’autorizzazione di un maestro spirituale (lo shaykh dei Sufi e il guru degli Indù) di discendenza regolare e ortodossa; se quella condizione non è assolta, l’imprudente che opera tentativi in quest’ordine di cose, s’espone, proprio per la sua mancanza di qualificazione, a ripercussioni estremamente gravi, quali lo squili­brio mentale o la morte.
5 Discontinuità riflettente quella che separa la manifestazione dal suo Principio o l’effetto dalla sua causa, e in un ordine opposto l’ “Identità Suprema” dall’opera di realizzazione. Questo alȋf è anche pronunciato d’altronde in maniera puramente naturale, nella forma del primo grido del neonato, mentre la finale è pronunciata dal morente nella forma del suo ultimo respiro.
6 Solo per un oblio del significato profondo delle cose si è potuti giungere ad ammettere l’equivalenza perfetta delle due Specie: in realtà è impossibile che esse siano assolutamente equivalenti, altrimenti la loro differenza non avrebbe nessuna ragion d’essere; del resto la differenza per così dire essenziale tra il corpo e il sangue fisici mostra bene che i loro prototipi principiali e universali devono a fortiori comportare una diversità profonda. Possiamo assimilare il corpo e il sangue di Cristo agli stati d’ “amplitudine”e d’ “esaltazione” dell’esoterismo musulmano, o ancora ai “piccoli” e “grandi misteri”, com’è possibile riferirli all’ “Uomo Universale” (la cui realtà più elevata corrisponde a el-ulûhiyah, “divinità”, cioè alla somma di tutte le realtà incluse in Allâh) e al Principio Supremo (al quale corrisponde el-ahadiyah, “unità”, del tutto trascendente). Ogni essere che faccia parte integrante dell’ “Uomo Universale”, o in altre parole del “corpo mistico” di Cristo, è una manifestazione del “pane” eucaristico e quindi “fratello di Cristo”; è questo il senso della parola di Cristo: “Tutto ciò che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me”.
7 Oltre le due funzioni naturali della bocca, del linguaggio e dell’assimilazione, le cui modalità sacre sono rispettivamente l’invocazione e la comunione — quest’ultima  ritrovandosi in altre tradizioni nella forma di differenti “bevande d’immortalità” (amrita, sôma, haoma, il nettare, l’ambrosia, l’ “acqua viva” di Cristo) — esiste pure un altro modo sacro, secondario rispetto ai primi due: il bacio, che si riferisce insieme al simbolismo della parola e a quello della nutrizione, e che in sé corrisponde al simbolismo spirituale dell’amore e dell’adorazione. Notiamo la pratica rituale del bacio del crocefisso, delle reliquie e delle icone, pratica che si riferisce all’amore di Cristo o in generale all’Amore divino; quando il crocefisso viene presentato dal sacerdote, quest’invito al bacio concerne più specificamente l’aspetto di misericordia della Croce. Ricordiamo altresì in maniera del tutto generica il baciamano e più particolarmente il bacio della mano dei prelati e del maestro spirituale, mano che essendo la destra simboleggia la “mano di Misericordia”. Il bacio della pietra nera incastonata nella Ka’bah alla Mecca è analogo alla comunione, come la pietra stessa lo è all’Eucaristia; essa era bianca e sfavillante quando fu data da Allâh a Seyidna Ibrâhȋm, e divenne nera per effetto dei peccati di coloro che la baciavano per affrancarsi da quei peccati; ma il Giorno del Giudizio finale essa avrà due grandi occhi e tornerà bianca; riposerà nelle mani d’Allâh e avrà il potere d’intercessione presso di Lui. L’analogia con l’intero mistero cristico è notevole.
8 Ci sono pratika o immagini sacre indù raffiguranti Parvati che tiene tra i denti un corpo umano, ciò si riferisce non solo al ritorno, distruttivo nell’ottica della manifestazione, all’Essenza universale, ma anche alla reintegrazione mediante la Conoscenza; aggiungiamo che l’immagine di Cristo crocifisso che era in origine evidentemente un pratika al pari di tutti i motivi importanti dell’arte medievale, è l’equivalente esatto dell’immagine dell’uomo divorato da una divinità. La riduzione di un simbolo ad un unico significato, più o meno esclusivo, è una degenerazione che non impedisce al simbolo di contenere tutto ciò che gli è inerente per la sua stessa forma. Nel sacrificio cruento l’arma del sacrifi­catore funge da “dente” di Kâlȋ, e sarà l’arma del nemico nella guerra santa; cosa che concerne chiara­mente non soltanto la jihâd musulmana, ma anche ogni forma di guerra santa, come la crociata oppure, genericamente, la guerra tradizionale di cui la Bhagavad-Gȋta espone il senso. Tale guerra può essere una lotta tra clan, tribù o popoli e degenerare, al pari del sacrificio cruento, dato che si giunge a sostituire il fine al sostegno, o a scambiare addirittura il sostegno per il fine medesimo. Osserviamo altresì ” che alcune forme di sacrifici volontari, quali la morte sotto le ruote del carro trionfale di Jagga­nath o sotto i denti di animali sacri, o ancora il suppuku o harakiri giapponese, sono altrettante forme riferentesi per la loro natura allo stesso simbolismo della bocca divorante di Kâlȋ. In una maniera del tutto generale, vale a dire nell’ordine naturale, l’essere è “mangiato” dalla Divinità quando muore, cosa che comporta un’indicazione assai precisa relativa alla morte iniziatica del dhakir che viene “mangiato” in olocausto da Allâh, che cioè s’estingue in Lui e a Lui s’assimila. Cristo è Verbo e Sacrificio a un tempo, come l’Universo che comporta questi due aspetti.
9  La figurazione, sulle immagini della Natività, del bove, animale docile, e dell’asino, animale testardo, è suscettibile dell’interpretazione seguente: il bove, che per altro era sacro presso gli antichi Semiti, è armato di corna e unisce in sé la dolcezza e la forza; rappresenta nell’invocazione il “guardiano del santuario”; è lo spirito di sottomissione, di fedeltà, di perseveranza, lo sforzo di concentrazione; l’asino, animale “profano” il cui grido viene chiamato ” invocazione di Satana” (dhikr esh-Shaytân), è il testimone satanico nell’invocazione, cioè lo spirito d’insubordinazione e di dissipazione. Nella medesima figurazione la Vergine, come vedremo poi, s’identifica con chi invoca; san Giuseppe, padre adottivo di Cristo, rappresenta la presenza invisibile del maestro spirituale nell’invocazione; i visitatori, riassunti in certo modo dai Re Magi, rappresentano quel che si potrebbe chiamare l’ “omaggio cosmico”, che affluisce verso l’uomo santificato, e di cui parlano le  Scritture indù dicendo che “i Cieli risplendono della gloria del Mukta” (“liberato”), e questo suggerisce un accostamento con l’adorazione di Adamo da parte degli angeli nel Corano; infine la notte che avviluppa la scena della Natività, ma che è illuminata dalla stella, il testimone divino, esprime la morte iniziatica o la solitudine, o ancora l’estinzione della mente, stato il cui sostegno rituale è la khalwah o “ritiro” delle scuole sufiche. Del resto sia la notte della Natività, sia la khalwah corrispondono alla laylat el-qadr del Corano.
10 Che la donna sarà salvata dal parto, secondo la parola di san Paolo, non è evidentemente senza nesso profondo con quest’altra parola: “Chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvo”.
11 “Colui che pratica il dhikr, letteralmente il “ricordo” (d’Allâh), cioè l’ invocazione, in qualsiasi modo.
12 Rammentiamo nel contesto l’importanza, sottolineata da tutti i maestri spirituali e soprattutto da san Paolo, della disciplina del linguaggio e dell’astensione dalla menzogna, disciplina cui s’aggiunge la pratica del segreto e del silenzio. Ogni azione, per estensione simbolica, è un ” Verbo” o una manifestazione “uscente” dall’uomo e che può, di conseguenza, macchiarlo; esiste, infatti, una relazione stretta tra il ” non-agire” (wu-wey) taoista e la  “verginità” cristiana,  attribuita in modo eminente al “discepolo amato”.
13 Questo accoglimento è subito simbolicamente dalla bocca del dhâkir, sotto forma dell’ansima della “danza sacra”, il dhikr eç-çadr.
14 È in tal guisa perché il corpo universale del Verbo, ossia l’Universo manifestato, procede dalla sostanza universale (Prakriri) di cui la Vergine è l’ipostasi umana.