Nella spiritualità più che in ogni altro ambito preme capire che il carattere di una persona fa parte della sua intelligenza: senza un buon carattere – un carattere normale e pertanto nobile – l’intelligenza anche metafisica è in parte inoperante, poiché la conoscenza completa di quello che è fuori de noi ne esige una uguale de noi medesimi.
Il carattere di una persona è, per un verso, ciò che essa vuole e, per l’altro, quanto ama; la volontà e il sentimento prolungano l’intelligenza, sono, come essa — che con ogni evidenza li penetra — delle facoltà d’adeguamento. Conoscere realmente il Sommo Bene è, ipso facto, da un lato volere quello che ci avvicina a lui e dall’altro amare ciò che testimonia di lui; ogni virtù deriva alla fine da tale volontà e da questo amore. L’intelligenza che non si accompagna alle virtù dà origine a una conoscenza potremmo dire planimetrica: è quasi che si cogliesse unicamente il cerchio o il quadrato, ma non la sfera né il cubo.
Cogliere la sfera o il cubo – parlando in un’ottica simbolica – significa avere il senso dell’immanenza e non soltanto della trascendenza; e la condizione di quella pienezza è la conoscenza di sé, ossia l’applicazione del discernimento al proprio ego, in maniera concreta e operativa, giacché la conoscenza impegna la volontà e il sentimento. Il sentimento non è di per sé del dentimentalismo; è un abuso solo quando falsa una verità; in se stesso è la facoltà di amare quel che è oggettivamente amabile: il vero, il santo, il bello, il nobile; “la bellezza è lo splendore del vero”. La conoscenza totale, abbiamo detto, esige la conoscenza di sé: vuol dire discernere l’ambiguità, la piccolezza e la fragilità dell’ego. È anche, e in sostanza, “amare il prossimo como se stesso”, cioè vedere nell'”altro” un “me” e in “me” un “altro”.
Frithjof Schuon, Il Senso dell’Assoluto – Avere un Centro, Edizioni Mediterranee, Roma, 2018, pp. 57 e 58.